Una lunga conversazione con Gary Brackett sul fare comunità, dopo la messa in scena di Mysteries and smaller pieces a Carrara
“Nei Mysteries non abbiamo più ruoli ma siamo noi stessi; si aprono le porte ad una tecnica sovversiva”.
Così il Living Theatre presentava Mysteries and Smaller Pieces, che esplodeva sulla scena di Parigi nel 1964 scuotendo il pubblico dalla passività delle proprie comode poltrone fino a quel momento tautologicamente separate dallo spazio dell’azione.
Senza una trama, senza personaggi e scenografia, con Mysteries il Living Theatre superava la divisione tra vita e arte, tra teatro politico e teatro di protesta, tra attori e pubblico. Gli attori si lasciavano attraversare, senza la mediazione di una storia né la finzione del personaggio, dal dolore e dalle tragedie della guerra, della morte, della miseria, dello sfruttamento, e mettendosi a nudo di fronte al pubblico, mettevano in condizione gli spettatori di entrare in uno spazio senza più limiti definiti, per partecipare e vivere la stessa esperienza. Il Living creava così le premesse con le quali avrebbe portato il teatro fuori dagli edifici protettivi e privilegiati, nelle strade, nelle fabbriche, nelle prigioni, negli ospedali psichiatrici, nelle favelas. Ovunque vi fosse povertà, disperazione, disadattamento, emarginazione, contaminando mezzo e messaggio e lasciandosi contaminare come comunità, praticando per più di vent’anni il messaggio di liberazione che ha lanciato. E oggi?
Ne parliamo con Gary Brackett, attore, regista e General Manager del Living Theatre, in Italia per tenere laboratori, dopo l’ultimo spettacolo messo in scena a Carrara.
Classe 1960, dopo una laurea in Scienze Politiche Gary Brackett si trasferisce a Boston, Parigi e New York dove dipinge e lavora in teatro e alla produzione di eventi politico/artistici. In questo periodo incontra il Living Theatre, col quale collabora dal 1989, anno in cui il Living si stabilisce in Italia, per rimanervi fino al 1994.
Attualmente vive a NYC dove con Judith Malina ha aperto il nuovo spazio-teatro nell’aprile del 2006, inaugurando la stagione con lo storico spettacolo The Brig, di Kenneth H. Brown, diretto dalla fondatrice del Living. Lo spettacolo è stato poi portato nelle strade della ‘Big Apple’ il 4 luglio di quest’anno, precisamente a Ground zero, come forma di protesta contro la guerra in Iraq e la prigione di Guantanamo.
Perché allora questo tornare continuamente in Italia? Cosa stai cercando di fare?
Sto seminando…
Mi risponde con un sorriso. Ed in effetti in questi ultimi due mesi ha ‘seminato’ in diverse città. A Napoli, Bari, Udine, in questi giorni al Forte Prenestino di Roma, ovunque vi sia disponibilità da parte di attori o semplicemente uomini e donne, giovani e meno giovani, a ricreare un gruppo per qualche giorno, una settimana, o più, rinasce un fecondo laboratorio creativo per portare in scena uno spettacolo del Living. Così è stato ad Ancona all’inizio del mese, dove un gruppo, attivato dall’associazione ‘Acchiappasogni’, in pochissimi giorni ha portato nelle strade della città Resist now, contro la globalizzazione dello sfruttamento e della miseria e così è stato a Carrara con Mysteries and smaller pieces. Nel salone del Germinal, sede della storica Federazione degli Anarchici Italiani, nel cuore della città, un centinaio di spettatori in una piccola platea improvvisata o a terra lungo le pareti della grande sala, si è fatto coinvolgere nelle Street songs lanciate contro la guerra in Iraq, contro le basi militari, contro lo sfruttamento, contro la proprietà, contro il decreto-espulsione; dentro l’accordo, suonando la voce in cerchio con gli attori, o dalla ‘morte atroce per peste’ di artaudiana memoria, degli attori andati a morire ai loro piedi.
Il giorno dopo lo spettacolo la curiosità, la sete di sapere, la voglia di chiedere, scavare, discutere insieme è ancora tanta e lascia intendere il desiderio di non lasciar cadere l’esperienza. Desiderio reciproco, d’altronde visto che anche Gary considera le esperienze di laboratorio e spettacolo che ha tenuto in Italia molto feconde, tanto che sembra illuminarsi all’idea di stabilire una ‘casa Living’ in Italia. Così, mentre siamo ancora insieme a casa di una di noi preparandoci un piatto di pasta, senza tanti preamboli vado direttamente al cuore del problema.
Oggi sembra molto più difficile fare in modo che un’esperienza collettiva si radichi, si incontrano molti più ostacoli dal punto di vista economico e istituzionale, e contemporaneamente è anche molto più difficile tenere insieme a lungo un gruppo; qual è la tua esperienza da questo punto di vista?
Questa è una domanda che mi ricorda quello che è successo a Napoli, per esempio. Con un gruppo di ragazzi che si chiedevano come poter mettere in piedi una struttura che permetta a questo gruppo di continuare… e mesi dopo non c’era niente, è crollato tutto. Bologna, la stessa cosa. Probabilmente dipende anche dal momento in cui ciascuno si trova nella sua vita, chi sta lavorando, chi sta cercando di laurearsi, e d’altra parte in Italia ci vogliono tre anni per ottenere i fondi per il teatro. In passato ho già creato un gruppo qui in Italia, un’associazione culturale che si chiamava Theandric, dal testamento di Julian Beck, e non ci hanno dato una lira, devi stare in piedi per tre anni prima che lo Stato si muova, e questo è terribile, non danno nessun tipo di sostegno. Ho anche chiamato l’Eti e abbiamo spedito il materiale video, e la risposta che è venuta è stata del tipo “questo sa un po’ di teatro amatoriale”, ma come pretendono di sapere come funziona un nostro spettacolo da un video, è talmente diverso dalle forme tradizionali…
Dunque difficoltà esterne, vite individuali prima di tutto, con tempi diversi e facile disgregazione. Come è stato possibile invece far vivere più di vent’anni quest’esperienza, durante gli anni ’60 e ‘70?
Il Living ha avuto come tessuto connettivo i fondamenti dell’anarchia, della non violenza, e ha messo in pratica tutto il possibile, dal teatro di strada in tutte le situazioni, fabbriche, favelas, ospedali psichiatrici, e quando ha recitato dentro i teatri comunque ha lavorato per rompere la barriera attori/pubblico, rifiutando di considerare il pubblico come tale, ma piuttosto interloquendo con ogni persona. La premessa di Paradise now era il teatro di strada, fino alle favelas di San Paolo, dove vivevano praticamente senza lo Stato, perché non c’era acqua, non c’era luce, nessun servizio pubblico, erano praticamente occupazioni. Lì è emerso quel mondo di neri, di indiani, di persone al più basso livello nella scala sociale. E senza soldi, vivendo quasi come hippies, collettivamente, hanno inventato questo ciclo di spettacoli incredibile intitolato L’eredità di Caino, che affronta il tema della violenza, partendo da una domanda molto semplice: perché siamo violenti? Perché creiamo strutture sociali che determinano la sottomissione, e dall’altra parte sono entrati nell’opera di Sacher-Masoch per restituire sventrata la sindrome sadomasochistica, non certo per interesse verso il ruolo di vittima o di carnefice. E da lì è nato Sette meditazioni sul sadomasochismo politico, perché tutte le nostre relazioni sociali, cominciando da quelle dentro le mura domestiche, sono basate sulla relazione dominante-sottomesso. E soprattutto per entrare nel merito del bisogno masochistico di protezione che perseguiamo nelle nostre dinamiche sociali, anche quando deleghiamo piuttosto che essere responsabili di noi stessi e della nostra comunità, alla pari, gli uni verso gli altri. Lo spettacolo ha disegnato sette punti nei quali siamo in schiavitù l’un l’altro: lo Stato, la guerra, il denaro, la proprietà privata, l’amore sadomasochistico, le relazioni familiari e i ruoli sociali. E poi hanno lavorato sul significato della rivoluzione, creando piccoli e grandi spettacoli su quei temi, nelle strade, nelle baracche, nelle fabbriche, andando in mezzo alle persone che non vanno a teatro, per portare questo messaggio di pace, di liberazione, per dire basta con il capitalismo, attraverso il loro stesso modo di vivere: come una comunità libera, basata sull’anarchismo.
Dunque il Living stesso era la risposta. Ontologia della prassi, come si direbbe oggi, pratica dell’obiettivo. Nel senso che oltre al contenuto degli spettacoli, è stato quella comunità liberata che ha trasmesso nei suoi spettacoli. E oggi queste premesse ci sono?
Da parte mia senz’altro. Judith ha già dato il massimo di quello che poteva, fino alla morte di Julian. Poi quelli sono anni in cui tutto è cambiato. Poi lei ed Hanon (Reznikov, attore, regista e compagno di J. Malina dopo la morte di J. Beck, è morto poco dopo questa intervista, il 3 maggio 2007, ndr)hanno deciso di rimanere a NYC, dove è impossibile creare una comunità.
Una città dove tutto è possibile e niente si radica…
Già, i Newyorkesi vivono con la testa nella sabbia. Qui in Italia invece al momento si verificano esperienze valide, più brevi o più lunghe, ma va bene. Anche se per ora sono temporanee, come dice T.A.Z. (Temporary authonomous zone, di Bey Hackim, ndr), è quello che il Living ha sempre fatto, dal ’61 fino alla fine degli anni 70. Ora ci sono periodi più brevi, magari momenti, come è stato lo spettacolo di strada ad Ancona o il laboratorio di una settimana che abbiamo fatto insieme per portare in scena Mysteries, ma sono comunque lampi di luce che squarciano il buio, sono semi per me, che io continuo a seminare insieme a chi vuole venire, insieme a chi mi accompagna per un breve tratto di strada o a chi decide di fare proprio lo stesso percorso, così come è stato per il Living Theatre a cui hanno dato vita Julian e Judith. Julian diceva che non siamo liberi finché non saremo tutti liberi, però possiamo essere liberi creando le strutture che ci aiutano a vivere in modo più aderente a quello che siamo e crediamo, anche se si tratta di un fatto temporaneo.
L’arte può avere ancora un ruolo sociale per creare la cultura di una società diversa?
Speriamo di sì altrimenti siamo tutti morti! E’ terribile quello che sta succedendo, il capitalismo sta esorbitando ma nessuno dice quello che è più ovvio, che se il capitalismo non cresce crolla, è il suo meccanismo. Anche i più seri studi economici che dicono? ‘Dobbiamo far crescere l’economia, altrimenti siamo fottuti’. Ma dove ci porta? Dopo 400 anni cosa è cambiato, se la proprietà privata è l’unico modello che abbiamo, se la famiglia nucleare è l’unica possibilità, e ognuno se ne sta chiuso nel suo guscio, non c’è un’idea di comunità, non c’è condivisione. Ogni individuo vive da solo, io lavoro con Emanuele (cita ad esempio un attore del gruppo, ndr) ma non mi preoccupo per il suo affitto e lui non si preoccupa del mio. Allora l’idea di avere una comunità economicamente autonoma, che può mantenere contadini o meccanici, o informatici o artisti o attori… è un miracolo?. Negli anni ’60 c’era un’esplosione di comunità, ora se parli di comunità c’è l’idea che probabilmente sei una sètta. Anche il Living è stato accusato di essere una sètta.
I mass media non aiutano in questo, tutto ciò che nel campo artistico si avvicina a tematiche politiche e sociali viene ammantato di qualcos’altro…
Anche l’hip hop o il rap o il beat vengono venduti al mercato; il capitalismo succhia tutto, gioca con quel prodotto e risputa alla massa, e magari una parte del messaggio arriva, ma senza più la sua radicalità: vivere senza denaro, senza dover lavorare 40 ore a settimana, che possiamo vivere in modo più umano, senza essere sottomessi al petrolio né alle grandi aziende. Bakunin diceva che la scarsità è creata dal capitalismo per avere più profitto, ma oggi c’è abbastanza cibo per tutti, eppure vengono creati meccanismi per cui il cibo stesso è necessariamente scarso da una parte o troppo abbondante da un’altra per alimentare i profitti delle aziende. Questo alimenta il sistema capitalista, non gli esseri umani. Il capitalismo è come un tritacarne che stritola ciò che è bene comune per risputare un profitto per pochi, ma è il suo sistema di funzionamento, non un’ideologia, una ‘necessità’. Dobbiamo liberarci dalla necessità. Gli stessi politici poi finiscono per essere asserviti a questo sistema, perché hanno bisogno di soldi per le loro campagne e per le strutture che li sorreggono. Pensa a Hillary Clinton, lei deve baciare il culo di tutte queste aziende per avere abbastanza soldi per fare la sua campagna. Lei era una dei pochi politici che 10-15 anni fa propose una sanità gratuita per tutti, ma oggi non si sente più; il nuovo film di Michael Moore, Sicko, lo dice. Allora lei si è autocensurata, e non può più dire quello che veramente sente nel cuore, perché altrimenti non vince, per come funziona il sistema americano.
Torniamo un attimo indietro all’idea di comunità di cui parlavi prima, e del periodo in cui siete stati qui in Italia, in Piemonte. Raccontaci come è andata quell’esperienza, come ha funzionato in quel periodo e perché è finita
E’ una contraddizione, perché abbiamo avuto fondi per ristrutturare la sede che ci avevano assegnato, erano soldi della Comunità europea, poi dalla provincia di Alessandria e poi dal Comune di Rocchetta Ligure. Ma in realtà poi non abbiamo avuto fondi noi come associazione teatrale, il centro-sinistra ha storto il naso sul nostro lavoro e ha chiuso il rubinetto.
Che anno era?
Dall’89 al 2004. Perché il Comune stava andando verso Forza Italia, ma è anche una scusa io credo, sai com’è qui in Italia, la provincia dice ‘E’ Roma che non ci dà più soldi’, il comune dice ‘E’ la provincia che non dà soldi’ e alla fine c’erano solo debiti e dopo due tre anni non c’erano soldi per creare niente. Eravamo lì senza una lira, quindi cosa fai… e poi ci siamo noi, che non siamo una comunità oggi. Con Julian Beck era una comunità perché oltretutto lui metteva al servizio del gruppo anche le sue capacità di trovare soldi, usava il suo carisma per trovare soldi da tutti, dai ricchi, dallo Stato, dal Partito Comunista, dall’Arci, pur di sostenere la compagnia. Il suo primo obiettivo era sostenere il gruppo di persone. E quando lui è morto quella visione è rimasta un’idea, ma in pratica è morta, perché quella capacità non è stata ereditata.
Il messaggio politico che portavate pensi abbia influito nella ‘chiusura dei rubinetti’?
Sì, in Italia sì, come ti ho detto, sembrava imbarazzante quello che pensavamo di creare, in quel momento almeno.
Ma in ogni caso tu credi nella possibilità di far nascere un nuovo gruppo in Italia.
Assolutamente. Forse però dovremo cominciare a parlare di cosa è necessario fare per gettare nuove basi. Tre elementi sostanziali colgo dell’esperienza Living: il primo è contenuto nel nome – Living – praticare il messaggio; il secondo è la messa all’indice della ‘dipendenza’, un punto di vista originale e prezioso, peraltro, per una discussione sul conflitto e sul Potere. Il terzo, conseguente a questo, è la necessità di fare comunità, per liberarsi dalla “necessità” del capitalismo, dalle necessità economiche. Dalla dipendenza, appunto. Cosa che apre il problema dell’autonomia economica di una comunità.
Carrara, novembre 2007 e dicembre 2012
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